La storia di Sicilia compresa fra il 1282, anno dell’incoronazione di Pietro d’Aragona, e il 1412, anno in cui Ferdinando d’Aragona iniziò la consuetudine di governare l’isola attraverso dei viceré, è tutta dominata da uno stretto intreccio di lotte e di disegni politici aventi tutti come teatro e come scopo la Sicilia. Si affrontarono la nobiltà latina e la nobiltà catalana, in una interminabile guerra intestina dove la posta in gioco era la supremazia di una casata sulle altre; lottarono la nobiltà, nel suo insieme e con diverse angolazioni di prospettiva, contro la corona, che tentava di stabilizzare nell’isola un potere centrale imponendolo a una nobiltà sensibile soltanto ai propri interessi particolaristici; si scontrarono il papato e gli Angiò contro la corona siciliana generando una situazione politica che finì col dare l’isola ai sovrani d’Aragona, terzi felici.
In pratica, salvo nell’ultimo atto di questo vasto dramma storico segnante l’annessione della Sicilia all’ Aragona, tutta questa vicenda fu caratterizzata da una serie di fallimenti;
- degli Angiò che videro vanificato il loro modello politico dalla rivolta dei Vespri;
- della nobiltà che, se ebbe tanta forza da cacciare gli Angiò e da paralizzare la corona, non ebbe modelli politici da proporre e che si dissanguò in una lotta al coltello per un potere che poi avrebbe venduto al miglior offerente;
- della corona che non seppe crearsi gli strumenti di potere per svincolarsi dalla soggezione alla nobiltà baronale che agiva sempre in senso polverizzante nei confronti dello stato;
- del papato che, perorando la causa degli Angiò, fra interdetti e scomuniche, si abbassò al minimo storico del proprio prestigio.
In questo vasto cimitero di modelli politici, la reale tendenza alla fusione con la Spagna fu semplicemente ritardata ma non evitata e tutto quel lasso di tempo andante fra il 1337, anno della morte di Federico III re di Sicilia, ed il 1398, anno in cui Martino II legherà insieme amministrativamente la Sicilia con l’Aragona, non si crearono in Sicilia delle autonomie municipali, delle signorie, sui modelli del nord Italia, ma vi fu in effetti un’interminabile guerra civile seguita (dopo il 1337 e fino al 1390) da un periodo di accomodamento di fatto, segnato dalla ripartizione dell’isola in delimitate sfere di influenza dominate rispettivamente dai Chiaramonte, dai Peralta, dai Ventimiglia, dagli Alagona.
Si è già detto che tutto questo periodo è dominato, in architettura, da un certo recupero culturale del passato normanno-svevo tradotto in termini medievali con qualche apporto, specialmente nelle parti decorative, della cultura aragonese. La saldatura politica fra la Sicilia e l’Aragona, iniziata nel 1390 e completata giuridicamente e politicamente nel 1412, provocherà in Sicilia il dilagare della cultura catalana obliterante ogni riferimento e al passato isolano e alla coeva architettura italiana.
Per Siracusa fatto di fondamentale importanza fu quello di essere eletta a sede di capoluogo della Camera reginale (1331-1536), provvedimento che provocò l’insediamento nella città di un governatore, del personale della Magna Curia, delle magistrature speciali, rivitalizzando in qualche modo il tessuto socio-economico della città.
In questo modo, scrive Giuseppe Agnello, tra la nobiltà indigena e quella isolana si determinò una vera gara di supremazia che ebbe evidenti ripercussioni nell’architettura. Non era possibile, infatti, che funzionari e governatori spagnoli, come i Nava, i Cabastida, i Cardenas, i Centelles, i Monpalan, i Cabrera, gli Ospidal, i Moncada, non portassero seco, assieme alla passione per la consuetudine patria, anche il nostalgico ricordo delle belle case signorili di Castiglia e di Catalogna.
Il conseguente rinnovamento del volto edilizio di Ortigia fu completo e andò così in profondità da segnare indelebilmente il volto della città tanto che, insieme al più tardo barocco, il connotato gotico-catalano ne rimane la più forte caratterizzazione.
Data la grande mole dei lavori che furono messi in cantiere e dato lo stato di generale decadenza del tessuto urbano delle città siciliane furono creati dallo stato gli strumenti giuridici per la ripresa edilizia.
A Siracusa nel 1437 fu promulgata una legge riguardante l’espropriazione per pubblica utilità di tutte quelle aree urbanizzate che dovevano diventare sede dei nuovi palazzi costruiti alla catalana, o che dovevano essere luogo di riadattamenti. Il provvedimento non interessò la sola Siracusa ma, come si è già ricordato, anche Messina e Palermo, con gli stessi scopi e le medesime caratteristiche. Si capisce che, se si prende a paragone Palermo, il risultato che ne sortì fu grandemente diverso. Mentre infatti a Palermo questa corrente, che ne dominò l’ambiente per tutto il Quattrocento e parte del seguente secolo, non riuscì a improntare di sé il volto della città ma ne rimase una delle componenti, data la presenza di zone urbanizzate di grande estensione e di precipua caratterizzazione, nella piccola Ortigia i nuovi palazzi si toccarono quasi, spigolo a spigolo, prospetto contro prospetto, e ne determinarono il volto urbanistico.
Ed ancora: mentre a Palermo tutta questa corrente sarà risolta nella sintesi “rinascimentale” del Carnelivari, connotandosi come grande architettura, e lasciando di sé pregnanti testimonianze (portico meridionale della cattedrale; palazzo Aiutamicristo e Chiesa della Catena del Carnelivari ecc.), a Siracusa l’architettura catalana resterà legata alla Spagna attraverso il cordone ombelicale degli scambi commerciali e la presenza dei funzionari iberici, senza che mai questa cultura si sia risolta in grande architettura e mai approdando a grandi sintesi locali.
E in ultimo: mentre a Palermo tutta l’arte del Quattrocento (a eccezione di pochi suoi brani) ha fatto naufragio, a Siracusa è rimasto tutto un tessuto edilizio catalano ancora coerente e urbanisticamente vivo in quei suoi affacci di portali a raggera, di bifore finemente lavorate, di atri ombrosi che si risolvono nei magici silenziosi interni delle corti, intatte nella loro geometria sempre scandita dalla caratteristica scalea segnata dallo sguscio angolare.
D’altro canto l’inconsistenza, a Siracusa, di una vera cultura architettonica (per questa via gli edifici trecenteschi rimarrebbero fugaci approdi edilizi interessanti l’urbanistica d’Ortigia più per sovrapposizione che per innesto) non provocò quel processo di estraneazione che ci si potrebbe aspettare da parte di una cultura che affondò nell’edilizia d’Ortigia in riferimento ad archetipi stranieri e senza nessun vero svolgimento locale.
L’architettura catalana non fu estraniante a Siracusa non solo per la inesistenza di una vera e solida cultura locale (il processo di estraniazione è sempre un rapporto di relazione) ma anche perché, colorando di sé l’urbanistica cittadina, se ne seppe rendere parte integrante assumendone simbioticamente il sapore locale.
I palazzi che ci rimangono del periodo catalano sono: il palazzo Lanza (in piazza Archimede; la sua collocazione urbanistica è stata però stravolta dalla distruzione dell’ambiente circostante); palazzo Pria, demolito; palazzo Corvaja, ricadente sempre sulla piazza Archimede, danneggiato dalla guerra e demolito in seguito (al suo posto venne realizzato il brutto palazzo della Cassa di Risparmio); palazzo Banca d’Italia. Come ben si nota tutto questo gruppo di palazzi, alcuni dei quali decisamente grandi come il palazzo Lanza, ricadevano tutti, a poca distanza l’uno dall’altro, intorno a quella zona che poi diventerà la piazza Archimede; a quell’epoca la zona doveva effettivamente sembrare un lembo di città spagnola della più nobile fattura.
Si costruì lungo la via Mirabella, che già doveva avere l’orientamento attuale, il palazzo Daniele. Si rimaneggiò lo svevo palazzo Bellomo realizzando il prezioso prospetto della seconda elevazione e il cortile. Nel cuore dell’antico quartiere della Giudecca si costruì la piccola ed elegante chiesa di S. Giovannello. In quella che oggi è chiamata la via Gargallo e che conserva solo l’ombra del proprio originario aspetto grazie alla orrenda inserzione di recenti costruzioni che ne hanno sconvolto la dimensione, fu realizzato il magnifico palazzo Gargallo, oggi sede degli uffici dell’archivio notarile.
Vennero infine realizzati i palazzi Zappata – Gargallo, Olivieri, Milocca, la casa Blanco, il palazzo Interlandi, la casa delle Orsoline, la casa Fontana, il nicchione di S. Maria dei Miracoli, il palazzo Migliaccio, l’ex-monastero di S. Maria. Anche sulle fortificazioni il soffio catalano lasciò una aggraziatissima traccia nella porta Marina, sovrastata da una lavoratissima edicola dove la pietra diventa elemento floreale in ogni parte lavorata e traforata.
L’insieme di tutte queste costruzioni doveva ben rendere Siracusa simile a una bella città spagnola (in una ricostruzione ideale occorrerebbe togliere ad Ortigia tutti gli elementi barocchi; in realtà Siracusa doveva allora essere caratterizzata dai palazzi trecenteschi e da tutti i numerosi edifici del ‘400, essendo il rimanente dell’edilizia povero e di piccola dimensione, questo connotato era mille volte più pregnante che non quello, pur evidente, che osserviamo oggi). Bene quindi nota l’Agnello come alla nobiltà catalana, che seguitò il re Alfonso nella progettata impresa africana del 1462, Siracusa che accolse nel suo porto le 130 navi del corpo di spedizione, dovette apparire come un lembo della lontana Iberia, non solo nelle principali caratteristiche del costume, ma anche nell’aspetto edilizio.
Il cuore delle costruzioni civili, come già si è avuto modo di osservare, non è costituito dalle sempre contenute facciate strutturate su poche elevazioni, eleganti e di rado “lavorate” alla plateresca come nella Casa Migliaccio, o pregni di ricordi Mudejar come nella bifora di palazzo Lanza, ma esiste solo negli interni raccoglienti tutto l’edificio intorno alla pausa di meditato silenzio del cortile ombroso segnato dalla caratteristica scalea.
È, questa, una filosofia della casa di indubbia eredità arabo-spagnola tendente, per l’appunto, a creare un “interno” segreto e chiuso alla via, ed a distribuire tutta la casa intorno al patio.
Sarà poi il barocco a stravolgere questa cultura della casa ed a riportare lo spettatore-fruitore del tessuto urbano nello spazio viario dove poter seguire l’ininterrotta teoria dei balconcini segnati dalle caratteristiche ringhiere rigonfie e poter cogliere i rapporti spaziali delle più importanti facciate nelle quali convergono gli spazi interni degli edifici.
Quella quattrocentesca e coerente filosofia dell’interno è ancora oggi ben leggibile, nonostante gli sforzi distruttivi realizzati negli ultimi cento anni nel cortile del palazzo Bellomo e nel cortile del palazzo della Banca d’Italia che, nella modestia delle sue proporzioni, resta un piccolo capolavoro di equilibrio compositivo e di eleganza formale.
Allo spirare del secolo, nel 1492, un grave provvedimento dettato da fanatismo religioso venne indirettamente a colpire Siracusa: la cacciata dell’attiva popolazione ebraica. Il quartiere della Giudecca, centro di un vivo mercato commerciale, si svuotò e la sua nuova popolazione fu interamente cristiana. Non vi sono elementi per potere giudicare quanto questo repentino cambiamento abbia influito sul volto del quartiere, ma è da supporre che molte botteghe, ivi ubicate, chiudessero, in una generale contrazione del tono economico della città.
Elio Tocco